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Caleb Landry Jones in Dogman
     
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sab 14-10-2023 19:31, n.14249 - letto 614 volte

Caleb Landry Jones in Dogman

Capolavoro di Luc Besson

di Maria Pia Ciani


"Ovunque ci sia un infelice, Dio manda un cane",  Alphonse de Lamartine 
"I cani sono capaci di coraggio senza superbia, di ferocia senza crudeltà, di forza senza cattiveria; hanno soltanto un difetto: si fidano degli umani".
"Mi sono sempre piaciuti i travestimenti. È questo che fai se non sai bene chi sei, giusto? Ti travesti, ti inventi un passato, dimentichi il tuo".
"Cane mangia cane".
"Un bambino prende l’affetto che trova".

Esistono film imperdibili, film che devono essere visti perché opere d’arte che, in quanto tali, sono patrimonio dell’umanità.
Umanità è la parola chiave del capolavoro di Luc Besson, nelle sale dallo scorso 12 ottobre.
Umanità sempre più rara negli uomini, sempre più vicina agli animali.
In un’interpretazione magistrale, Caleb Landry Jones rapisce il pubblico grazie a primi piani magnetici, ai dialoghi compiti e pacati.

La bellezza del suo personaggio appare evidente sin dalle prime scene. Si scorge appena il profilo coperto da una parrucca bionda, lentamente si gira verso la sua interlocutrice, Evelyn, la dottoressa chiamata in piena notte per tracciare il profilo psicologico di Douglas.
Quando il movimento si compie ed il volto si mostra ad Evelyn, l’accostamento ad Arthur Fleck , alias Joker, è immediato.

Una storia di disaffezione, violenza, emarginazione e solitudine, ma anche di coraggio e di resilienza. La mancanza di affetto familiare compensato dai cani, i soli in grado di prendersi cura di Douglas che, sin da piccolo, osservava dalla finestra all’interno di una casa schermata da alti muri, il modo disumano con cui suo padre trattava i cani chiusi in gabbia.

Niente cibo per loro, bisognava lasciarli a digiuno perché patire la fame avrebbe alimentato la rabbia, così sarebbero stati più feroci ed aggressivi durante i combattimenti, dalle cui scommesse il padre di Douglas traeva profitto.

L’infanzia del protagonista è violenta, l’unico ricordo felice è l’immagine di sua madre mentre in cucina cantava seguendo le note del disco scelto con cura, l’unico momento di gentilezza, puntualmente distrutto dall’irruenza del padre che vi poneva fine spaccando il vinile.

Suo padre era “un uomo arrabbiato con il mondo, innanzitutto con sé stesso”.
La sua è una famiglia dove si fa continuamente riferimento a Dio, si citano a memoria le sacre scritture, ma nessuna delle azioni compiute in quella casa ha il sapore della  misericordia. Quell’uso strumentale della fede appare come un abuso, una continua bestemmia.

L’unica soluzione è allontanarsi da quella casa, da un padre folle ed un fratello altrettanto rabbioso che quella follia non la placa, la asseconda identificandola con la giustizia.
La fragilità che in natura condanna, è invece una caratteristica umana che, alle volte, salva. Con queste parole, Douglas descrive sua madre, nei confronti della quale non prova alcun risentimento, malgrado l’inferno in cui lo ha lasciato.

Il pubblico conosce la storia di Douglas attraverso il suo racconto alla psicologa, Evelyn, una giovane madre che continua ad essere importunata dal suo ex marito, un tossicodipendente dal quale ha preferito divorziare piuttosto che far vivere a suo figlio ciò che ha vissuto lei da bambina.

Il dolore, come un fil rouge, accomuna i personaggi del film, che procede con ritmi veloci, di scena in scena la storia si fa sempre più avvincente ma anche commovente, perché è davvero difficile restare indifferenti alle immagini sovente poetiche che Luc Besson è riuscito a realizzare.

La sorellanza, questo strano concetto del quale si parla spesso, lo si auspica tanto ma resta una rarità, è una delle immagini più gentili del film, Douglas è un artista che non deluderà.
 In Dogman, il cui nome trae origine dallo striscione che il fratello di Douglas fissa sulla gabbia dei cani “In name of God”, visto dall’interno si legge al contrario, appunto Dogman, ho visto come in Joker, un film capace di innestare più generi: romantico, il musical, il triller, l’azione e miscelarli con maestria e sapienza.

La scena finale rimanda ad una frase precisa di Douglas “posso stare in piedi ma per poco tempo, posso fare qualche passo in avanti, ma nella situazione in cui si trova il mio midollo, camminare in avanti significa camminare verso la morte”.

Curatissimi il montaggio ed il doppiaggio, la colonna sonora è la sintesi di una scelta raffinata che dona ritmo, brio, malinconia e tenerezza ad un film che è un tripudio di emozioni.

Io ritengo che Dogman sia il film più riuscito di Luc Besson, candidato anche all’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia, mi aspetto tante candidature ai Golden Globe ed agli Oscar. Ed attendo con trepidazione il 25 gennaio 2024, data di uscita nelle sale di Povere Creature di Yorgos Lanthimos, vincitore del Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia. Deve essere spettacolare per aver scalzato un film così potente come Dogman.

Poi sappiamo che nei festival magari sono anche altre le dinamiche che direzionano le scelte, e non sempre collimano con i gusti del pubblico.
Ad ogni modo, concedetevi il dono della poesia, andate a vedere Dogman.





 
 


 

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