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Un canale Youtube, un racconto: così racconto i miei sentimenti
     
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ven 16-09-2022 07:45, n.13893 - letto 1034 volte

Un canale Youtube, un racconto: così racconto i miei sentimenti

I racconti di Zaira Mainella

di Elide Apice


Zaira Mainella ama scrivere e lo fa con perizia, si cimenta con la narrativa  e le poesie ed è sempre molto carica di sentimenti.
Ha appena pubblicato sul suo canale youtube un racconto (che riportiamo integralmente).
https://www.youtube.com/channel/UCStD5xV00ubLrZEPtY_VEOQ
“ Com'è scritto alla fine del racconto – spiega - , tante volte ho pensato di scrivere qualcosa sulla triste esperienza che io e la mia famiglia abbiamo vissuto in seguito all'alluvione del 15 ottobre 2015, ma non ho trovato mai il coraggio. Emergeva dal passato il dolore al solo ricordo dell'accaduto.
Una mattina di settembre, mentre me ne andavo a camminare a Piano Morra, come faccio due o tre volte a settimana, mi soffermai a guardare dall'alto il fiume Sabato, in particolare il suo colore, molto simile a un marroncino sporco. Mi ricordò subito il fango.
Quel giorno il fiume Sabato aveva il colore del fango. Subito riaffiorarono alla mente i ricordi dell'alluvione e mi dissi: "perché no? Proviamo a scrivere qualcosa, a raccontare la realtà, e vediamo se riesco una volta per tutte ad allontanare da me la tristezza che subito mi colpisce nel ricordare quel giorno di sette anni fa".
Inizialmente avevo pensato ad un romanzo breve. Ho cominciato a scrivere, ma al secondo capitolo mi sono resa conto che avevo già raccontato tutto, o almeno quello che per me era l'essenziale.
Così ho deciso di unire i due capitoli creando un racconto, concludendolo con quella che inizialmente doveva essere la prefazione. L'ho intitolato "Fango e anima", perché è vero che il fango si è portato via piccoli pezzi della mia casa e del mio vissuto, ma è rimasta l'anima, e da lì siamo ripartiti per andare avanti e ricominciare”. 
FANGO E ANIMA
 
 
Ti affezioni alle cose anche se non dovresti, ma poi accade che le cose si rompono, si perdono e non le trovi più. Avevo un paio di orecchini pendenti che terminavano con una stella. Mi ricordavano la protagonista di un cartone animato che vedevo da bambina, “Il mio nome è Jem”; anche lei aveva una stella al lobo. Non li trovai più dopo l’alluvione del 15 ottobre 2015. Ho ancora la cattiva abitudine di togliermi gli orecchini la sera e lasciarli vicino al lavandino del bagno attiguo alla tavernetta. Quando un metro d’acqua ricopre le cose è difficile ritrovarle in seguito, soprattutto se ritirandosi quell’acqua lascia dietro di sé fango e nient’altro che fango.
La sera prima dell’alluvione ero seduta sul divano della taverna con mio marito a guardare “Squadra antimafia”. La regina di Palermo, Rosy Abate, ci teneva incollati allo schermo, mentre di sopra i nostri tre figli dormivano placidamente. Cominciò a piovere prima che salissimo anche noi per andare a dormire. Era quasi mezzanotte. Non avrei mai immaginato di dormire appena tre ore quella notte. Non ho mai amato la pioggia, ma neanche mi spaventava. La trovavo semplicemente noiosa, una seccatura, soprattutto se insisteva per un giorno intero, mentre io ero costretta a uscire di casa più volte per accompagnare i bambini, impegnati in sport e varie attività. Il cellulare di mio marito squillò alle tre di notte, facendoci sobbalzare. Pensi sempre al peggio quando qualcuno ti telefona in piena notte. Era il fratello di mio marito che abitava dall’altra parte della strada in un appartamento sopra a quello dei miei suoceri. Disse di andare a controllare la tavernetta, perché il nostro vicino si era allagato e siccome anche la nostra casa era situata alla fine di una strada in discesa, l’acqua trovava facile sbocco in pendenza. Ricordo che pensai subito che non c’era niente di cui preoccuparsi; in nove anni non ci eravamo mai allagati. Ne approfittai per andare in bagno, mentre mio marito scendeva a controllare. Dopo pochi secondi un urlo squarciò il silenzio. Il mio nome non era mai stato pronunciato con tanta enfasi e preoccupazione.
Mi precipitai per le scale al buio, preparandomi al peggio. Non riuscii ad arrivare fino in fondo. L’ultima rampa per arrivare in taverna era immersa nell’acqua. Un metro, se non di più. Qualcosa galleggiava al centro della stanza. La luce proveniente dalle finestre nelle scale mi fece riconoscere in quell’oggetto ingombrante in posizione orizzontale la porta che dava al garage, completamente sradicata. Perfino i due pesanti divani di pelle erano spostati. Mi scappò un’esclamazione concitata: “O Dio!” Non riuscivo a credere ai miei occhi. Il disastro che avevo davanti era qualcosa d’inconcepibile per la mia mente. Sono quelle situazioni terribili e assurde che vedi spesso al telegiornale, in tv. Ti dispiace, t’immedesimi, preghi per i malcapitati; ma solo quando succede a te comprendi veramente il dolore che altri hanno provato prima di te e che ora ti sta invadendo l’anima all’improvviso. Ci rendemmo conto in un momento che le chiavi di casa erano in taverna e non potevamo raggiungerle a meno che non ci bagnassimo. Se le avessimo prese avremmo potuto uscire dal portone del soggiorno, al piano superiore. La corrente era saltata. Da una delle finestre lungo le scale vedemmo fuori al cancello il nostro vicino, mio suocero e mio cognato. Subito pensammo di chiamarli per avvertirli, anche perché a casa di mio suocero c’era un mazzo di chiavi di riserva della nostra abitazione. Il rumore della pioggia copriva le nostre voci e non ci udirono. Mi resi conto che i bambini al piano notte dormivano, ma rischiavano di svegliarsi se continuavamo ad urlare. Risalimmo a prendere il cellulare per telefonare a mio cognato, ma non rispondeva. Evidentemente non aveva con sé il telefono. Dopo un tempo che mi parve interminabile riuscimmo a rintracciare mia suocera e così vennero ad aprirci e a rendersi conto della situazione. Davanti a mia cognata scoppiai a piangere.
“È tutto allagato!” Singhiozzai tra le sue braccia.
“Puliamo tutto, non ti preoccupare!” Rispose, cercando di rassicurarmi.
Poche ore dopo mi sorpresi quando scoprii che le scuole sarebbero state chiuse quel giorno. Appresi con dispiacere che la mia città era stata colpita dall’alluvione e dall’esondazione dei fiumi riportando molti danni. Tante persone erano rimaste ferite, due erano morte, uno aveva trascorso delle ore attaccato ad un palo della luce mentre la sua casa veniva sommersa dall’acqua. La mia situazione era irrisoria in confronto a quello che era successo altrove. Eppure io piansi, piansi tanto quando riuscimmo a scendere in tavernetta dopo che l’acqua era scomparsa. C’era fango ovunque. Fissai con stupore vicino al tavolo della cucina una bottiglia di vetro vuota. Da dove era uscita? Poi trovai più avanti il secchio della raccolta del vetro che avevo in garage rovesciato, ecco da dove veniva. I mobili erano sporchi e al loro interno era tutto da buttare: pasta, biscotti, perfino le medicine. Purtroppo nella mia cucina ci sono quasi prevalentemente mobili bassi, solo un paio sono sospesi in aria; quindi quella mattina non so quante buste nere condominiali riempimmo di cose da buttare. Mia cugina si offrì di tenermi i bambini, non potevano certo restare a casa con tutto il lavoro che c’era da fare... Quando arrivò mia mamma, mi sconfortai ancora di più. Telefonò a sua sorella descrivendo la nostra tragedia come quelle che si vedevano in televisione: fango dappertutto. Nei cassetti, tra le pentole, tra le posate… A un certo punto sbottai. Se doveva rimanere per aiutarmi, non volevo sentire altro. Già ero abbastanza a pezzi. Avevo bisogno di forza per rimboccarmi le maniche, non di sentire ancora di più il peso di quello che era successo. Avevo una cassettiera vicino al bagno con vestiti giornalieri dei bambini, quasi non li riconobbi talmente il fango li aveva impregnati. Li misi da parte con l’intento di lavarli con calma; ma non avrebbero più riacquistato il loro colore naturale, soprattutto quelli bianchi. Era come se il fango avesse contaminato ogni cosa. Dopo un po' di tempo cominciarono ad arrivare zii e cugini che vivevano lì vicino. Avevano saputo la notizia. Non dimenticherò mai il grande aiuto che ci diedero. Con la pompa a gettare acqua sotto i mobili, dentro i cassetti… Quante cose buttai! Altre non le ritrovai più, come i famosi orecchini a stella. Oltre ai divani, al computer, a una scrivania, perfino alla macchina dovemmo rinunciare. Si erano aperti i finestrini e l’acqua aveva danneggiato ogni cosa. Fummo costretti a buttarla.
Nei giorni successivi scongiuravamo il cielo affinché non piovesse ancora. Avevamo messo i divani in giardino per farli asciugare; altra pioggia non ci avrebbe aiutato. In seguito decidemmo comunque di darli via per come erano rovinati. Il giorno dopo l’alluvione io e mia sorella ci mettemmo fuori a lavare i giocattoli e le barbie delle bambine, usando due grandi conche. I capelli erano appiccicati. Il fango era ovunque. Alcune le buttai a malincuore, erano troppo malridotte. Con rammarico, nei giorni seguenti, quando ricominciammo a “vivere” di nuovo nella tavernetta, i miei figli quasi piansero non ritrovando più alcuni dei loro giochi preferiti. I mattoni di rivestimento del termocamino cambiarono colore. Il segno c’è ancora oggi, dopo sette anni. Abbiamo provato perfino a dipingere i mattoni con un nuovo colore, ma la differenza con quelli superiori, rimasti intatti, si nota sempre. Quando allungo il tavolo della cucina, in occasione di cene tra amici, ancora adesso minuscoli pezzi di fango incrostati cadono dalla parte sottostante in legno. Perfino il colore delle mensole all’interno dei mobili non è più lo stesso. Il bianco latte ha lasciato il posto a un beige-giallino. Col tempo ho cambiato la disposizione delle cose, sistemando biscotti, pasta e altro cibo nei pochi mobili sospesi, lasciando in basso pentole e altre stoviglie. Abbiamo scoperto che l’acqua eccessiva che è arrivata da noi e dal vicino proveniva dall’alto, da una zona in cui non erano state pulite le fognature. Mio marito nei mesi successivi si mise a lavorare duramente per creare una nuova griglia nella discesa che andava al garage in cui far defluire l’acqua, un’altra invece la ingrandì. Dovevamo cercare un modo per tutelarci; avevamo sempre paura che potesse accadere di nuovo, che l’alluvione potesse colpici ancora. Di notte quando pioveva forte ci svegliavamo, scendevamo a controllare le griglie delle fognature esterne per accertarci che non si riempissero.
Ti rendi conto all’improvviso che le cose non ti appartengono. Puoi perderle da un momento all’altro. Fai sacrifici per comprare una macchina, dei mobili, dei vestiti e in poche ore l’acqua e il fango cancellano non solo le cose, ma anche tutti i ricordi legati ad esse. Scivolano via in un lampo, trascinate qua e là, sporcate, private del valore affettivo, come se non avessero più vita. È questo lo sbaglio: ti affezioni alle cose, anche se non dovresti.
Tante volte ho pensato di scrivere qualcosa sull’alluvione che il 15 ottobre 2015 ha colpito la mia città, Benevento, e soprattutto me e la mia famiglia. Una voce latente nella mia testa ogni tanto emergeva con la voglia di raccontare, ma alla fine non trovava le parole. Il fango ha portato via con sé tante cose, ma l’anima è rimasta, l’anima della mia casa, delle persone che vi abitano, di tutto quello che ancora c’è, sebbene segnato per sempre. Forse ora che ho raccontato questa storia ne prenderò finalmente le distanze e non mi sveglierò più di notte quando fuori piove forte con la paura che succeda qualcosa. Forse… chissà…
 Zaira Mainella
 


 
 


 
 


 

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