“Un tempo ci si rivolgeva al Popolo...oggi la parola popolo non si usa più, oggi si parla alla Gente”.
Fa decisamente un certo effetto leggere all’inizio del film “Hammamet, fine del secolo scorso”, anche se in realtà è storia contemporanea. Un passato recente che moltissimi ricordano molto bene. Tanti altri, magari quelli della mia generazione, hanno avuto bisogno di aggiungere al ricordo indelebile di Craxi umiliato dal lancio delle monetine il 30 aprile 1993 all’uscita dall’Hotel Raphael, la storia politica che segnò con l’inchiesta Mani Pulite la fine della prima Repubblica.
Parafrasando una nota citazione cinematografica, “Craxi è come l’opera lirica, o lo si ama o lo sia odia”.
Se ciò può essere valido per la persona, infatti ancora oggi Craxi è considerato o un perseguitato che costretto ad un esilio forzato ha pagato per tutti, o un latitante ladrone che ha preferito lasciare l’Italia per non affrontare le proprie responsabilità e risponderne nelle aule di tribunale.
Non lo è altrettanto per il personaggio la cui interpretazione va ben oltre la verosimiglianza, più si guarda il film e più si fa fatica a riconoscere Favino nei panni del politico milanese.
Oltre al trucco che senza dubbio merita un David di Donatello, e fornisce all’interprete la forma, è poi l’artista a plasmarla con la sostanza. Le movenze, le espressioni, i repentini cambi di umore, la voce, la postura, la sagace ironia sono dovute alla capacità di immedesimazione di Pierfrancesco Favino il quale non solo entra nel personaggio, ma diventa Craxi, lo fa davvero rivivere mostrandoci gli ultimi sei mesi di latitanza ad Hammamet.
Presente in quasi tutte le scene, la sensazione che ho provato mentre lo guardavo è la identificazione del film con il protagonista. Gli altri personaggi appaiono come figure di contorno delle quali, se non fossero necessarie per aggiungere dinamismo, non si sentirebbe nemmeno la mancanza perché è Craxi a raccontarsi attraverso di loro. Sono quindi specchi nei quali si riflettono le situazioni che hanno connotato la sua vita, sostanzialmente politica, quella privata viene messa in un cono d’ombra.
Al di là di quelle che possano essere state le intenzioni del regista, la figura di Craxi appare quella di un uomo potente, abituato ai fotografi, alla stampa, al consenso ed alla critica che vive la sua latitanza come un esilio, una costrizione verso una giustizia che lo ha condannato per crimini che ammette di aver commesso ma non in solitudine. L’idea è quella di un uomo al declino, sul precipizio della vita, libero in una grande casa bianca protetto giorno e notte da una schiera di cecchini, che vive con indifferenza la vicinanza con la moglie, con amorevole conflitto il rapporto con la figlia, con tenera dolcezza quello con il nipote. Prova rabbia per chi non lo ha sostenuto, per tutti quelli che lo hanno tradito. Dal film trapela anche un sottile senso filantropico. La malattia che lo consuma fino alla fine.
Bella la fotografia, bellissime le musiche di Nicola Piovani, perfetti i costumi e la scenografia.
Encomiabile Pierfrancesco Favino.
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