Gianrico Carofiglio, “La misura del tempo” (Einaudi editore), proposto da Sabino Cassese con la seguente motivazione: «Una donna, una persona ambigua e sfuggente, un vecchio amore, ricompare nella vita di un avvocato, attento ma insicuro (i due ritratti sono delineati con grande maestria) e gli chiede di difendere suo figlio, imputato di omicidio. Da qui si dipanano due storie, costruite in un montaggio alternato, alla Griffith, verso il passato di quell’amore e il futuro della sentenza attesa. Una sapiente costruzione, in cui si riflettono le inquietudini del nostro tempo, e il cui protagonista è proprio il tempo (donde il titolo), che si incarica di trovare una soluzione alle due storie. Dal processo emergerà una nuova verità, ma non un nuovo colpevole, che sarà alla fine individuato in altro modo. Sotto queste vicende si nasconde un vero e proprio “conte philosophique”. Dietro l’apparenza del “giallo” si celano insegnamenti profondi: la pluralità dei punti di vista; i diversi modi in cui si presenta la realtà; l’invito a dubitare della verità stessa. Due citazioni, una del capolavoro di Kurosawa e una di Canetti, in pagine diverse, rafforzano queste conclusioni. Carofiglio si conferma come una delle voci più importanti della narrativa italiana.»
GIPI (Gian Alfonso Pacinotti), “Momenti straordinari con appalusi finti” (Coconino Press), proposto da Francesco Piccolo. «La voce di Gipi, il suo sguardo, la sua comicità straziante ancor più che malinconica, i vari registri che usa per tenere la temperatura emotiva al massimo, intanto che sdrammatizza. E il tocco inconfondibile del disegno, mentre fa il ritratto molto personale del comico Silvano Landi, immerso nella tragedia della madre che sta morendo. Tutto questo consente all’autore di raccontare e raccontarsi, di mettere insieme tutto quello che gli serve per questo romanzo di un figlio che non diventerà mai padre. Presento Gipi e il suo Momenti straordinari con applausi finti, perché è una figura unica nel panorama artistico, e di conseguenza è figura ancora più originale e necessaria in quello letterario; e il suo graphic novel è un capolavoro intimo che abbatterebbe le barriere dei generi, se ci fossero ancora. Ma ormai non ci sono più, e la candidatura di questo libro ha valore soltanto per la sua qualità e originalità.»
Lorena Spampinato, “Il silenzio dell’acciuga” (Nutrimenti Edizioni), proposto da Lidia Ravera. «Il silenzio dell’acciuga coniuga la forza e la crudeltà della fiaba con la dolorosa intelligenza del romanzo di formazione. La vicenda si svolge in Sicilia negli anni sessanta del secolo scorso e racconta la solitudine di quattro personaggi, emblematici ma mai streotipi. Si tratta di Gero e Tresa, due gemelli di nove anni, maschio e femmina, costretti a vivere dentro questi diminutivi sgraziati. Di Rosa, la zia trentasettenne, single senza figli, chiamata a prendersi cura di loro e il Padre: patriarcale e perdente, capace di imporre alla figlia il rifiuto della sua appartenenza di genere per proteggerla dalla frivolezza tentatrice, al figlio il trionfo della sua, che prevede l’obbligo di sottomettere qualsiasi donna gli capiti a fianco. Compiuta la sua sinistra missione, il patriarca scompare. Dunque, come nelle fiabe, la madre è morta, il padre è assente e nei giovani orfani l’innocenza si intreccia alla solitudine, la meraviglia al terrore. Come nei romanzi di formazione, i personaggi compiono un tratto saliente della loro carriera di esseri umani. Gero si muove verso la maschera torva del padre, come fosse inevitabile riceverne il testimone. Rosa si muove verso l’apprendimento di una maternità più culturale che naturale. Tresa verso la scoperta della femminilità, con le sue croci e le sue delizie. Lorena Spampinato racconta una storia dolorosa e vitale, con una sensibilità d’altri tempi ai guasti dell’universale maschile e alla umiliazione della differenza femminile. La racconta con uno stile esatto e austero, senza cedimenti, dove ogni parola pare dettata dall’urgenza dell’opera prima ma scelta e soppesata con l’accurata lentezza di chi crede nella letteratura come primo motore di ricerca delle proprie origini, dei modelli di relazione fra umani, del senso e del sentimento del proprio percorso esistenziale.»
Laura Imai Messina, “Quel che affidiamo al vento” (Edizioni Piemme), proposto da Lia Levi. “Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto”. «Mi scuso per la citazione (è di Babel) ma vi assicuro che mi si è veramente affacciata alla mente, mentre leggevo, con crescente emozione, il libro di Laura Imai Messina. La storia parte da un fatto reale. In un giardino situato all’interno di uno dei luoghi più colpiti dallo tsunami del 2011 (siamo ovviamente in Giappone) qualcuno ha installato una cabina telefonica che custodisce un vecchio telefono nero. Non ha fili questo telefono, è collegato con il nulla. È li però che affluiscono migliaia di persone ansiose di parlare attraverso quell’apparecchio con i propri cari scomparsi. Il loro messaggio sarà il vento a trasmetterlo. É da questo commovente fenomeno che Laura Imai Messina ha tratto ispirazione letteraria. Quando si tocca il tema delle cadenze del dolore e della “guarigione” dal dolore si sfiora sempre il rischio che possa uscire una sorta di manuale consolatorio in stile new age. Niente di più lontano dalla prova di finezza psicologica e grande scrittura che ha saputo realizzare questa autrice italo-nipponica. Ne è venuto fuori un testo schivo e poetico, dove la tragedia che ha colpito i due protagonisti e il loro risveglio alla vita, è raccontato attraverso piccoli tocchi incisivi del quotidiano che centrano l’obbiettivo molto più di una sia pur tragica visione di insieme. Imperdibile per “trafiggere” le scene con cui, attraverso rapidi flash ci viene presentato “il mostro”, lo tsunami figlio dell’apocalisse che, al passaggio, fa strage indistinta di cose, persone e “voglia di vita” di chi ce l’ha fatta a scampare.»
Valeria Parrella, “Almarina” (Einaudi editore) proposto da Nicola Lagioia. Nella storia del rapporto, in un carcere minorile, tra una professoressa di matematica e la sua nuova allieva si nasconde una vicenda che ci riguarda tutti. Quanto siamo disposti a metterci in gioco davanti agli altri? Il dolore ci accomuna, la paura trae costantemente il peggio da noi, il senso del dovere può diventare una scusa per andare sempre in giro con la guardia alta. Fino a quando la vita non ci obbliga a scegliere. Almarina racconta tutto questo con un’intensità e una misura ammirevoli, e una forza linguistica rara, segnando una tappa importante nella letteratura italiana di questi anni.»
(fonte https://www.premiostrega.it/)
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