Questo il sesto gruppo di libri proposti allo Strega 2020. Olimpio Talarico, “Cosa rimane dei nostri amori” (Aliberti compagnia editoriale), proposto da Ferruccio de Bortoli. «Le province, i borghi nascosti e sconosciuti, i non-centri del nostro Paese dove il tempo scorre in modo diverso e la vita sembra non accadere. Sono queste le nuove grandi protagoniste della narrativa italiana degli ultimi anni, luoghi in apparenza silenziosi ma dove il vissuto dei personaggi fa un rumore assordante. È quella di Caccuri, quella di una Calabria genuina e inedita la provincia che Olimpio Talarico mette in scena tra le pagine di Cosa rimane dei nostri amori, raccontando l’intenso legame tra il borgo crotonese e le storie dei suoi abitanti. Un senso di repulsione e avvicinamento necessario caratterizza questo legame, un legame che ogni lettore riconosce come proprio. Un rapporto denso di amore-odio conduce chi legge a capire il senso del profondo radicamento nei confronti della propria terra, indiscutibile presupposto alla vita di tutti. Il pretesto per indagare questo particolare legame è dato da un crudo fatto di cronaca nera, che getta sulle più strette relazioni del protagonista una pesante ombra di sospetto. Il merito di Olimpio Talarico è quello di far scoprire ai lettori il proprio passato mentre li conduce tra le strade una Caccuri forte e cruda, calandoli in una lingua complessa e intrisa di termini dialettali. Ed è proprio quando chi legge sarà entrato nel seducente dipanarsi della trama e avrà scoperto i più spietati atti che un uomo è in grado di compiere, che Talarico obbligherà tutti noi a interrogarci: “E se fossi io?”» Lorenza Pieri, “Il giardino dei mostri” (Edizioni E/O), proposto da Martina Testa. «Il giardino dei mostri è la storia di due famiglie, i Biagini, contadini e butteri, e i Sanfilippi, membri della borghesia intellettuale romana, i cui destini si incrociano nella seconda metà degli anni Ottanta in Maremma, quando l’avvento della moda delle vacanze in campagna provoca nella zona un improvviso aumento del benessere, dando uno scossone ai rapporti sociali tradizionali. Su questo sfondo storico e geografico, disegnato con tocchi sobri quanto precisi, Lorenza Pieri ricama le vicende umane – umanissime – di padri impegnati a conservare un’autorità sempre più precaria, madri che tentano invano di gestire gli equilibri affettivi, figli confusi e irrisolti, mettendo in scena un romanzo corale dal ritmo perfetto con al centro l’adolescente Annamaria, brillante personaggio femminile capace di opporre al generale smarrimento esistenziale una generosa vis comica. Il tutto orbita, infine, attorno a un luogo al tempo stesso magico e reale, il Giardino dei Tarocchi di Capalbio, e alla sua creatrice, Niki de Saint-Phalle, l’artista francese che con la sua sensibilità luminosa e tormentata fa da contraltare alle ipocrisie dei rapporti di potere fra cui Annamaria e gli altri devono barcamenarsi. Al suo secondo romanzo, Lorenza Pieri mostra già la sapienza di una narratrice esperta: crea sulla pagina un mondo totalmente credibile, costruisce una trama avvincente, scrive dialoghi vivacissimi e realistici, dà vita a personaggi a cui è impossibile non affezionarsi: ha il dono, naturale ma scrupolosamente allenato, di una lingua mai approssimativa o banale, e di uno sguardo acuto sui dettagli e carico di pietas; nasconde con eleganza il suo io dietro la fiction, ma le sue pagine sono piene della verità e del calore di chi certe esperienze e certi luoghi li ha vissuti. Il giardino dei mostri è un romanzo profondamente attuale ma immune alle mode letterarie, ambizioso ma felicemente accessibile, che merita di raggiungere un vasto pubblico. Per tutti questi motivi sono felice di candidarlo al Premio Strega.» Francesco Longo, “Molto mosso gli altri mari” (Bollati Boringhieri editore), proposto da Marco Cassini. «C’è un’estate che è sempre sul punto di finire, questo 31 agosto, come ogni 31 agosto, a Santa Virginia, e l’autunno della nostra ragione che è lì alle porte, e incombe. Incombe nelle forme di una tempesta annunciata, delle lunghe onde verdastre che aprono questa storia insieme a una «coperta grigia che fodera sia il cielo che il mare», e dell’innocenza che dà segno di essersi stufata e volerci finalmente abbandonare. Le onde grandi e noi: confluiti di nuovo tutti qui per l’evento atmosferico che renderà indimenticabile l’addio all’estate e a un mare la cui presenza ci fa vivi e la cui assenza ci rende orfani. C’è anche Micol, venuta ogni agosto e ripartita ogni settembre, e oggi i cavalloni portano la notizia che si sposa; Michele – un gioco di vocali bolse e di eterne attese tra i due poli di questa storia d’amore al rallentatore –, l’unico della comitiva che tutti gli anni resta al mare anche d’inverno, sciorina la loro vicenda al sole delle estati passate e di un amore che spesso si è nascosto, a volte è sembrato manifestarsi e ora sta per andarsene davvero. Palme, banani, carrubi, pini, giunchi, ciliegi, ortensie, aranci, castagni, peschi, tigli, limoni, clematidi, meli, allori, oleandri, lecci, acacie, salici, pioppi, eucalipti, ulivi, bouganvillee, querce, peri, rovi, cactus, edera, canneti, rose, magnolie, pitosfori, agavi: la vegetazione addomesticata dei giardini dei villeggianti vuole conquistarsi spazi tra i nostri sentimenti ma i proprietari dei villini ignorano l’operosità del giardiniere d’inverno, che come il nostro cuore lavora anche negli undici mesi di solitudine. In un esordio che ha il passo di un classico, Francesco Longo ci racconta che l’amore agisce su di noi come la salsedine sulle biciclette lasciate nelle case di vacanza mentre siamo in città. Fin dalla prima pagina, il suo romanzo mi ha tenuto, ognuna delle tre volte che l’ho letto, in un continuo groppo di emozione e nostalgia, oltre che di ammirazione per la cura linguistica e la maturità letteraria. Ho ritenuto giusto segnalarlo al Premio Strega perché la sua è una voce nuova ma già importante della narrativa italiana.» Leonardo G. Luccone, “La casa mangia le parole” (Ponte alle Grazie), proposto da Silvio Perrella. «Propongo di candidare La casa mangia le parole di Leonardo G. Luccone (Ponte alle Grazie) al Premio Strega perché si tratta di un romanzo piuttosto singolare. Folto di pagine, innervato di utopie e tragedie, ricco di una scrittura spesso dialogante e polifonica, coraggioso nei temi, la sua singolarità è già coglibile dall’esergo scelto ad intonare il tutto: “Dobbiamo sempre dire la verità perché chi dovrebbe garantirci la verità ci racconta storielle consolatorie o ci sorride con la faccia da lieto fine”. E’ una frase di Moses Sabatini, una persona in carne ed ossa che nel romanzo diventa un personaggio, affiancandosi ai colleghi della Bioambiente, la società che con lungimiranza dovrebbe progettare un tempo più decente per il domani. E tra i suoi colleghi figura anche l’ingegnere De Stefano, il quale vorrebbe separarsi dalla moglie, ma esita, esita; come esita la consorte, trascinandosi entrambi per le strade di una Roma smarrita. E nel frattempo il loro figlio Emanuele si scopre dislessico e deve affrontare un tragico e insieme poetico corpo a corpo con l’alfabeto. E mentre la pagine si accumulano il lettore viene introdotto sia nel mondo famigliare sia in quello lavorativo e sempre, sempre risuona implicita o esplicita la necessità di dire la verità. Ma chi saprà pronunciare le parole esatte senza inciampare negli ostacoli di un alfabeto beffardo e saltellante? Scritto al polo opposto della commedia, il romanzo di Luccone sviluppa con serietà e immaginosità i temi pressanti del presente e scortica a sangue vivo chi ci racconta storielle consolatorie. Non è usuale. E va preso in considerazione come tra i libri più originali e tragici della stagione.» Lorenza Pieri Daniele Vicari, “Emanuele nella battaglia” (Einaudi editore), proposto da Michele Dalai. «Emanuele nella battaglia (Einaudi editore), è un libro importante per capire chi siamo, cosa siamo diventati, quanto sia pericoloso quaggiù, quanto sia importante arrampicarsi e guardare dall’alto, da dove violenza, micro e macro criminalità, crudeltà e omertà sembrano tanti puntini uniti da un tratto unico, riconoscibile e tanto più netto quanto più si sale, una figura geometrica che si chiama Italia. Un lavoro fondamentale per ciò che mostra senza chiedere al lettore di aderire a una teoria, lasciandogli lo spazio del respiro e dell’angoscia. Una delle scene più potenti e terribili di Shoah è quella in cui Lanzmann inquadra un campo verde, l’erba alta scossa dal vento, un prato dove un tempo stavano le baracche del campo di concentramento. Dire l’indicibile. Vicari lo scrive. La gita in montagna di Emanuele e Federico, liberi nel silenzio e nelle infinite possibilità della vita è l’indicibile, la bellezza più straziante, il ricordo di quel che eravamo, che potremmo essere, che non saremo.» Fonte https://www.premiostrega.it/
|