Ecco il settimo gruppo di proposte per il Premio Strega 2020
Luciano Curreri, “Volevo scrivere un’altra cosa” (Passigli Editori), proposto da Alessandro Barbero «Luciano Curreri (1966) è alla sua terza prova narrativa (dopo A ciascuno i suoi morti, 2010, e Quartiere non è un quartiere. Racconto con foto quasi immaginarie, 2013) ma è anche fecondo autore di saggi, sempre documentati e creativi, in bilico fra letteratura e storia: con le ‘pinocchiate’ ha attraversato la storia recente d’Italia e si è inventato un’altra letteratura italiana, figlia di testi minori; partendo dalla Comune di Parigi si è interrogato sull’Europa della comunità; ha indagato la ricezione dialettica e giocosa di due grandi personaggi dell’antichità, Scipione e Spartaco, ma anche la memoria della guerra civile spagnola tra finzione, propaganda, testimonianza e realtà. Il libro che qui si presenta. Volevo scrivere un’altra cosa (Passigli 2019), è visibilmente il frutto di un lavorìo intenso, da parte di uno scrittore che è anche un letterato, uno storico e un filosofo, e che sta trovando una sua voce distintiva, capace di suscitare interrogativi non banali. Il libro punta sulla forma breve in un momento in cui – nonostante si assista in Italia a un certo ritorno del racconto – la forma breve non accontenta nessuno, né il pubblico né gli editori; tutti i diciotto frammenti della raccolta hanno poi una specie di postilla più o meno lunga, che si presenta in forma innocua come se volesse spiegare, ma che invece finisce per rendere il testo ancora più spiazzante e per sconvolgere, talvolta addirittura invertire, l’interpretazione. Proprio la compattezza di questa struttura fa sì che il libro non sia in realtà una raccolta di racconti ma un lavoro compatto, quasi fosse un romanzo per frammenti e per titoli, con dediche ad illustri scrittori cui non si fa il verso, certo, ma la cui presenza s’intuisce, tra forma e contenuto. La partecipazione al Premio Strega è il salto di qualità che la voce di Curreri merita per venire del tutto alla luce e scoprirsi in altri e più importanti lavori nell’avvenire.»
Cynthia Collu, “L’amore altrove” (DeA Planeta - narrativa), proposto da Ferruccio Parazzoli «Romanzo di narrazione compatta, esattezza e controllata forza del linguaggio. Storia di una famiglia che, nei ricorsi della vita, può sembrarci perfino di avere conosciuto in uno qualunque dei nostri condomini urbani, ma che, come ogni storia di famiglia, è irrepetibile nei suoi dolori, esaltazioni, cadute, resurrezioni, affetti, ribellioni. Storie che si alternano, in cui ognuno vive e rivive la propria nel passato e nel presente, pagine in cui l’impeto, che raggiunge anche toni scabri, cede alla dolcezza, la spietata osservazione umana a una profonda pietà. Tali i sentimenti e le passioni che, fino dai primi romanzi, fa vivere la vibrante voce di Cynthia Collu.»
Raffaele Mozzillo, “Calce. O delle cose nascoste” (effequ), proposto da Filippo La Porta Proposto da Filippo La Porta «Perché è un reportage narrativo minuzioso sugli emigrati italiani (500.000!) in Svizzera negli anni Sessanta (percepiti come “brutti, sporchi e cattivi”), che ci fa entrare nelle loro baracche, e fin negli armadi dove si nascondono i bambini perché è vietata la ricongiunzione del nucleo. Perché ci racconta una storia recente che farebbe bene alla nostra coscienza civile di oggi, ricordandoci che la parola d’ordine degli svizzeri xenofobi – che per un soffio persero il referendum – era “prima gli svizzeri!” Perché è un romanzo epico-lirico, spietato e commosso, che tratta frontalmente la Famiglia, architrave della storia sociale del nostro paese, luogo quasi impenetrabile di affetti reali, perversioni segrete e scheletri nascosti. Perché è una narrazione polifonica, tra Italia e Svizzera, fitta di personaggi ritratti in modo incisivo e che disegnano una genealogia “mitica”: dal patriarca mastro Michele – e dalla moglie Carmela – alla sorella Rosa, a Salvatore e Irina, a Micaela… Perché ci dà una rappresentazione della morte in un reparto oncologico che non ci dimentichiamo: “ogni morte tiene un alito specifico che soffia piano finché non c’è più. A quel punto quando la vita si è dissolta anche la morte muore, gli odori cominciano invece a rassomigliarsi tutti”. Perché dal punto di vista della tecnica narrativa alterna la terza persona a una seconda persona usata in modo virtuosistico. Perché una bambina a 9 anni vede due tossici che si scambiano le siringhe e poi si baciano appassionatamente, fino a lasciarsi cadere a terra tramortiti, e ne resta segnata (straordinaria immagine simbolica di un quotidiano in cui si mescolano amore e degrado). Perché ci parla di crepe lasciate dalla calce sulla parete che non puoi sistemare con due colpi di spatola, e che ci costringono a una resa dei conti: o precipitando o aprendoci a una verità che potrebbe salvarci.»
Silvia Ballestra, “La nuova stagione” (Bompiani), proposto da Loredana Lipperini Proposto da Loredana Lipperini «La nuova stagione non è soltanto un romanzo sul territorio, le Marche della bellezza pagana, delle leggende legate a santi e sibille e del terremoto, ma è una storia di mutazione insieme generazionale e sociale che si incarna nelle due protagoniste, Nadia e Olga, e nei loro tentativi di vendere la terra ereditata dal padre. E’ un romanzo di radici, certo, e di come, per quanto ci si possa allontanare per giovinezza, amore, scelte lavorative, si verrà comunque richiamati prima o poi indietro. Ma è anche un romanzo che racconta il cambiamento nel mondo agricolo della post-mezzadria e delle multinazionali, l’espansione delle monoculture intensive, il regno surreale di una burocrazia paralizzante. Non c’è l’idillio nella scelta stilistica di Ballestra: c’è l’ironia, il gusto del paradosso, come nel racconto dell’odissea delle sorelle per disfarsi delle palme di proprietà, c’è l’attenzione per le vite piccole, le figure sullo sfondo degli affreschi che non vengono quasi mai narrate. C’è, anche, la nostalgia per come si cambia: “Dunque era questo, il diventare definitivamente adulte (…) Disperarsi per una lettera di esproprio invece che per una lettera d’amore finito”. C’è, infine, una lingua particolarissima, che ingloba il dialetto incastonandolo in una scrittura di divertita e antica bellezza, come le terre in cui nasce, e che canta: prova di maturità e insieme di immutata capacità di meraviglia da parte di una delle scrittrici italiane più importanti e più attente alle nostre nuove stagioni, letterarie e civili.»
Marta Barone, “Città sommersa” (Bompiani), proposto da Enrico Deaglio «Una giovane donna va in cerca di suo padre, morto di cancro quando era ragazza. Davanti a lei la Città, che un tempo era dominata dalla Fabbrica e dal suo sistema di vita, che nei caffè resiste sulle pareti con “la luce torbida delle carte dei cioccolatini”. Siamo a Torino e Marta Barone indaga sugli oscuri, violenti, ma anche felici Anni Settanta, di cui il padre è stato protagonista, testimone e vittima. Città sommersa, denso di pietas non immemore, è un esordio letterario fulminante.»
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