"Io sono il precipitato imprevisto di una storia durata niente". Una mamma bambina, rimasta incinta troppo presto e poi tradita ed umiliata. Un padre che si è rivelato "una promessa non mantenuta". Febbre (Fandango libri) di Jonathan Bazzi, è una autobiografia. È una storia vera, di vita vera, una storia d'amore, di amori, di ricerca di sé, della propria strada, "datemi un metodo per circoscrivere l'io: come si fa a sapere cosa si prova davvero?" È la storia dei turbamenti che accompagnano la crescita, di quel sentirsi sempre fuori posto tipico dell'adolescenza, di quando si cerca la propria identità, tra la paura di crescere, la paura di essere rifiutati, la paura di essere diversi e quel bisogno spasmodico di essere ascoltati, visti, aiutati che si mescola con la necessità di nascondersi per non essere risucchiati e distrutti. Tutto questo è ancora più difficile quando vivi nella periferia di Milano, che è uguale a tutte le periferie "fatta di grandi palazzoni di case popolari dai colori spenti... Appartamenti prodotti in serie - due, tre o quattro locali - disposti in colonne, una di fianco all'altra... Case alveare, un appartamento schiacciato sull'altro. Una famiglia addosso all'altra, a formare degli organismi marchiati dalla via e dal numero civico. "Famiglie di cui alcune si accontentano ed altre "che invece non lo fanno, e vanno contro la legge". "Famiglie troppo simili tra loro, che hanno creato una subcultura specifica fatta di codici di cui poco si sa all'esterno". La periferia "delle signore al supermercato in vestaglia, dei ragazzini lampadati coi capelli rinsecchiti dal gel che impennano col motorino, delle adolescenti con la tuta aderente già truccatissime al mattino alle sette....delle grida che riempiono i cortili e salgono su su, fino alla cima dei condomini che a me mettono angoscia ma alle rondini evidentemente no. In cima ai palazzi, sotto al tetto, vengono a farci il nido". Quella periferia che ti resta incollata addosso, anche quando te ne vai. Ed ancora più difficile quando sei omosessuale. Sì, ci sono tanti temi in questo libro: il degrado delle periferie, l'emarginazione, l' omosessualità, i rapporti familiari, i sogni infranti, la fatica di vivere, la violenza domestica, il bisogno d'amore. Tutti trattati con lucidità, trasparenza, sincerità, crudezza, sfrontatezza senza cadere negli stereotipi né nella commiserazione. E poi c'è il tema della malattia. La malattia che "recinta, scinde, confina chi ne è portatore in una sfera a parte -egoista, impaurita - lo riporta all'io-me primordiale che non vede altro che se stesso". La sieropisitività all'HIV "un'identità decisa dal corpo, la posso riconoscere e accettare, negare o dimenticare, ma lei resta com'è, tale e quale..." Ma "il patto doloroso si può spezzare raccontando tutto... Appropriarsi a proprio modo dello spazio dell'esclusione, introdurre una falla nel sistema e stare a vedere..." Perché si può dire, si deve poter dire "Ho l'HIV, sono sieropositivo: cosa significa? Ti faccio paura? Ti faccio schifo? Non è importante, non mi interessa.. Ho l'HIV: significa solo che frequento dottori e faccio controlli. Come milioni di altre persone... il resto ce lo metti tu, ce lo mettiamo noi". Un buon romanzo, scritto con una prosa pulita, asciutta, scorrevole, piacevole. L'alternanza di capitoli che raccontano gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza con capitoli che raccontano dell'età adulta, rendono chiaro il concetto di come "Tutto arriva dopo un sacco di spoiler".
Il libro è entrato nella dozzina del Premio Strega 2020 proposto da Teresa Ciabatti.
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