Quando nacque l’Italia unita in quali condizioni si trovava il Sud? Quale fu il ruolo del brigantaggio e della camorra? I Piemontesi si comportarono davvero da colonizzatori? Quali ricchezze furono portate al Nord dopo la caduta del Regno Borbonico? Qual è la verità sull’incendio di Pontelandolfo e Casalduni? A tutti questi interrogativi cerca di rispondere in maniera sobria ed equilibrata il libro di Dino Messina, “Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare”, pubblicato per le edizioni Solferino. Si comincia dall’impresa dei Mille e si arriva ai problemi e alle speranze del mezzogiorno contemporaneo. Il giornalista lucano, che collabora col “Corriere della Sera”, passa in rassegna tutte le problematiche più scottanti ed attuali connesse alla “questione meridionale”, mira ad analizzare le vere cause del divario nord-sud, partendo dalla costruzione dell’Unità d’Italia. Il suo lavoro di 325 pagine ci offre un’ampia panoramica delle varie posizioni in campo, illustrando le ragioni dei sostenitori dell’unificazione e nello stesso tempo le motivazioni dei movimenti neoborbonici, che hanno ripreso vigore negli ultimi anni grazie ai libri di Pino Aprile. Il quadro che ne viene fuori è un utilissimo contributo per orientarci meglio. L’obiettivo dell’inchiesta è quello di smontare una per una tutte le teorie che hanno alimentato il “mito dell’Eldorado meridionale” e “la leggenda del sacco operato dal Piemonte” ai danni del sud, spogliato e poi abbandonato dallo Stato unitario. L’analisi di Messina utilizza e mette a confronto gli studi recenti di importanti storici italiani, tra i quali, in particolare, Emanuele Felice, Vittorio Daniele, Guido Pescosolido e Aurelio Musi. Riassumendo il tutto nella felice sintesi, con la quale intitola uno dei capitolo finali del libro, che bisogna ritenere il sud “né palla al piede, né terra di primati”, ma fondamentale tassello nazionale. Per dare uno sguardo alle condizioni del Sud sotto i Borboni, basti considerare che l’analfabetismo raggiungeva l’86 per cento della popolazione (cioè soltanto 14 cittadini su 100 erano in grado di leggere e scrivere), mentre in Italia era al 63 ed intorno al 50 per cento in Piemonte e Lombardia. I poveri nel centro-nord erano il 37 per cento, al sud al 52 per cento. Disastroso anche il quadro della scolarità: solo 17 bambini su 100 tra i 6 e i 10 anni andavano a scuola. Al Nord invece erano 67. Sul piano delle infrastrutture, la ferrovia Napoli-Portici, di 7 chilometri, nata per celebrare la dimora del re, nel giro di vent’anni, avanzò ben poco. Questa tratta venne prolungata fino a Castellammare e Pompei, ma era “un passatempo degli aristocratici”. Un ampio spazio è dedicato all’incendio di Pontelandolfo e Casalduni. Sulla tragica vicenda, avvenuta il 14 agosto 1861, si è registrata una girandola di dati sul numero dei morti. C’è chi l’ha tramandata come eccidio e strage di centinaia di vittime innocenti. Quello che è certo è che fu una delle pagine più tragiche dei primi vagiti dell’Italia unita. Alcuni scrittori antiunitari hanno paragonato quei fatti agli stermini nazisti. Una linea intrapresa da Carlo Alianello, Giacinto De Sivo e dallo stesso Aprile, che ha parlato addirittura di 1463 morti. Come andarono realmente le cose? Il giornalista Messina s’incammina sulle tracce dei testimoni, recandosi a Pontelandolfo, accompagnato dai sanniti Mario Pedicini e padre Davide Panella, ed incontra don Giuseppe Girardi, attuale parroco, per prendere visione degli archivi parrocchiali. Tra i documenti più significativi c’è la cronaca scritta a caldo da don Giambattista Mastrogiacomo, parroco di Fragneto Monforte, che racconta che, prima della repressione , “45 militari piemontesi furono mandati al macello…furono uccisi a colpi di fucili, baionette, mazze, accette e falci. Questa fu la causa -annota Mastrogiacomo- per cui da Torino fu decretata la distruzione dei due comuni, Pontelandolfo e Casalduni. La risposta fu senza riflessione, umanità e giustizia. Il paese è in preda alle fiamme”. Nella ricostruzione dei fatti Messina si è servito anche del saggio dello studioso sannita Giancristiano Desiderio, “Pontelandolfo 1861.Tutta un’altra storia”, pubblicato nel 2019, e nel quale si parla soltanto di 13 vittime civili. La rappresaglia contro i soldati piemontesi sarebbe stata opera della banda guidata dal capo brigante Cosimo Giordano, che aizzò in particolare i contadini e le donne. Qualcuno dice che anche parte del mondo della chiesa caldeggiò questa rivolta, perché simpatizzava apertamente per il Regno Borbonico. I sanguinosi episodi di Pontelandolfo furono cantati in una ballata degli Stormy Six. “Per capire come mai -conclude Messina- nella nuova vulgata le vittime civili siano lievitate da 13 fino ad oltre 1400 è utile leggere L’affaire Pontelandolfo di Silvia Sonetti, che, oltre a ricostruire puntualmente i fatti, analizza la costruzione del mito dell’eccidio. Comunque non c’è bisogno di gonfiare dati e aggiungere particolari di fantasia per raccontare il dramma di Pontelandolfo e Casalduni e rendere giustizia alle innocenti vittime civili, che furono 13 per mano dei soldati e 4 per mano dei briganti. E militari che furono 41.Tutte le ipotesi di studio non vogliono negare la gravità e la crudeltà della repressione, ma aprono nuove strade alla comprensione dei fatti”. Un ruolo che il libro di Messina svolge egregiamente con ricchezza di particolari, con brillantezza e rigore.
|