“Le fantasie di quella bambina mi spaventano. A me spaventano di più le fantasie degli adulti che si credono bambini”.
L’Immensità, nelle sale dal 15 settembre, conferma l’ottimo stato di salute di cui gode il cinema italiano. Emanuele Crialese, dopo una lunga assenza durata 11 anni, dopo Terraferma, torna a raccontare, o forse a raccontarsi. Un film che narra un prima e fa solo presumere il dopo, lasciando nei ricordi del pubblico una scena in bianco e nero ed una intensa dichiarazione d’amore affidata alle parole di Grazie Amore Mio.G Grazie ad una perfetta scenografia e ad un’ottima fotografia, Crialese dipinge la storia di Andrea alias Adry e di sua madre Clara, unite da quell’amore che sfida il mondo, dalla complicità che consente di cercare un’altra vita, dalla consapevolezza di sbagliare e di pagare anche di più, perché quell’amore che le unisce non potrà finire mai. Chi si aspetta un film esclusivamente concentrato su una storia transgender resterà deluso. L’Immensità è molto di più. E’ la ricerca di un’identità, del proprio posto nel mondo e la percezione chiara che tutto ciò che c’è intorno è un ostacolo, sa di ottuso. Il contesto culturale del tempo, la storia è ambientata negli anni ’60 del secolo scorso, era dominato da una mentalità patriarcale, ben rappresentata da Felice, marito di Clara e padre di Andrea-Adry, il cui atteggiamento sembra sempre essere poco affine al suo nome. A Vincenzo Amato, che interpreta talmente bene il ruolo del padre-padrone da suscitare una condivisa antipatia nel pubblico, sono riservate poche scene e le sue battute sono essenziali. Pur apparendo un film corale per il numero consistente di personaggi, in realtà le protagoniste assolute sono Penelope Cruz e la talentuosa dodicenne Luana Giuliani. Una madre ed una figlia, due drammi diversi che si intrecciano, si completano e si compensano. Una donna bellissima, una madre affettuosa, una donna ripetutamente umiliata che “si trucca se ha pianto o se deve uscire”; la maggior parte delle volte è truccata ma non deve andare da nessuna parte. Una figlia legatissima alla madre da un immaginario cordone ombelicale che Andrea-Adry stringe quando vede la madre in difficoltà, stringe più quando deve proteggerla. Lo allenta quando le viene chiesto di non attraversare il canneto, quando le si chiede di prometterle di non raggiungere chi vive oltre quel canneto. La scena iniziale cita le atmosfere Almodovar per l’allegria, la musica, i colori, e certamente perché Penelope Cruz, musa indiscussa di Pedro, è una madre almodovoriana in tutte le sue sfaccettature eccezion fatta per la pacatezza che la regia di Crialese le attribuisce. Quando Andrea-Adry immagina in un mondo a colori, una vita in bianco e nero, il velo blu della suora spazzato dal vento scopre una lunga chioma castana ed inaspettatamente quel volto distaccato diventa angelico, sembra una scena strappata da La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Il volo dei grembiuli bianchi e neri che volteggiano leggeri nell’aria, ricordano un quadro di Magritte. Penelope Cruz, che invece di arrabbiarsi con i suoi figli, così come lo sono le altre madri, per essersi nascosti e persi nel sotterraneo, gioca con la pompa e bagna chiunque, diventando come sovente avviene complice di giochi infantili con i suoi figli, ricorda quel pizzico di follia di Valeria Golino in Respiro. In questo Crialese cita se stesso. Il filo che sullo schermo scrive il titolo del film si unirà al filo rosso che Andrea-Adry userà per avvolgere le pareti del salone di un signorile appartamento ricoperto dalla moquette. Quel filo indica un legame indissolubile, che nulla può rompere o distruggere, nemmeno l’incendio che ha devastato il grande salone di rappresentanza dove poco prima Clara aveva accolto una donna ed ascoltato il suo segreto. Quel filo rappresenta quel legame e ed il canto d’amore finale è per lei. Chissà, se oltre il cielo, non sia proprio quel filo L’Immensità.
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