Lidya Tàr è un personaggio immaginario, è il direttore (il maschile non è casuale) della prestigiosa orchestra filarmonica di Berlino. Compositrice di notevole talento con un pessimo carattere, veste esclusivamente abiti confezionati su misura dal taglio volutamente maschile, guida un Porche Panamera. Si definisce una “noiosa lesbica monotona”. La compagna, Sharon, suona nella sua orchestra come primo violino, hanno una bambina, Petra, e vivono in un lussuosissimo appartamento dove il design e la ricercatezza descrivono un luogo elegante ma freddamente anonimo. A mio avviso, la linea narrativa sottesa a tutto il film, la si evince nelle prime scene, durante un’intervista che la compositrice rilascia come ospite in un gremito teatro di New York. La domanda che le viene posta dal giornalista e conduttore attiene alla parità di genere, al motivo per il quale lei preferisce farsi chiamare Direttore piuttosto che Direttrice. La sua risposta, si capirà, delinea gli eventi. Nulla di più si può aggiungere altrimenti si rischia di anticipare ciò che deve invece essere scoperto, ogni scena è sottilmente funzionale a comprendere il personaggio. Cate Blanchett è superlativa in quell’iperbole discendente di chi subisce, suo malgrado, una metamorfosi. Pochissime le scene luminose di una luce costantemente fredda, bianca. Sovente la macchina da presa la riprende nelle sue notti insonni camminare per casa alla ricerca di rumori che la svegliano dagli incubi, riflessi onirici dei suoi sensi di colpa. Quanto, che sia un uomo piuttosto che una donna a raggiungere posizioni di potere, si ritenga di poter approfittate di quella posizione di privilegio? La grandezza del film è il modo in cui inizia; i titoli di coda aprono il film, l’elenco del cast lo chiude quando una straordinaria scena finale lascia nel pubblico in sala la medesima sensazione di interdetto stupore. Tàr è un film imperdibile.
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