“Non è solo una questione di coerenza. E’ una questione di principio. Nella vita due o tre principi bisogna averli. Chi ha detto che la storia non si possa fare con i se!”
Geniale, è questo l’aggettivo più comune nei commenti che si legge sia sui social che nelle recensioni riguardanti l’ultimo film di Nanni Moretti. Che piaccia o meno Moretti, questa volta non si può non convenire. Il film promette bene sin dalla prima scena dove si riconosce il Brizio, amico fraterno di Rocco Schiavone, calare da una balaustra sul Tevere tavole di legno, supporti necessari a writers maturi, per scrivere sul muro il titolo del film con una vernice rossa fiammante. Il protagonista assoluto del film è il cinema e la sua capacità di raccontare, di illuminare, di informare, di approfondire, di restituire dignità a verità scomode, di offrire un controcanto, di rispettare il pubblico. Moretti realizza un’opera monumentale, un inno a tutta la sua cinematografia dal suo primo lungometraggio “Io sono un autarchico” a “Tre Piani”, arricchendola di brio, leggerezza ed ironia permettendo al suo personaggio di cimentarsi nel canto “hai sempre detto di voler fare un film con le canzoni”, nel ballo, nella reazione alla prostrazione. Gianni è un personaggio depresso e melanconico, dall’inconfondibile tono di voce monocorde ed incolore, eppure riesce a bucare lo schermo e coinvolgere il pubblico in sala che si sorprende a canticchiare, sorridere, commuoversi. Il pubblico sente di essere il cast che balla insieme al suo regista sul set, sulle note di “Voglio vederti danzare” del Maestro Battiato. Quel pubblico non può evitare di muovere una gamba o tamburellare le dita di una mano sul bracciolo della poltrona, immaginando di essere il passeggero seduto sui sedili posteriori dell’auto dove Giovanni e Paola, ovvero l’immancabile Margherita Buy assoluta compagna di set di Moretti, fanno il pieno di energia al ritmo di Think di Aretha Franklin. Ed in quel momento Gianni e Paola assaporano, anche se solo per pochi minuti, quanto bello era sentirsi di nuovo complici sentimentali. Moretti mette in scena le maestranze, tutte le figure professionali indispensabili per la realizzazione di un film, nomi a cui non si associano volti, i titoli di coda. Giovanni attraversa gli ambienti realizzati per il suo film ambientato nel 1956. Con una panoramica laterale dall’alto, consente di porre l’attenzione sul lavoro degli scenografi che in modo minuzioso hanno ricreato un quartiere della Roma nella metà degli anni ’50. L’importanza delle musiche in un film, quanto sia importante commissionare colonne sonore originali, rispettando l’artigianalità dell’opera che come un abito sartoriale segue la precisione delle cuciture di ogni orlo. La coppia di giovani che si bacia dopo aver visto La Dolce Vita, la camera da presa inquadra Marcello Mastroianni vestito di bianco sulla spiaggia e le sue mani si sollevano in segno di resa o rassegnazione nell’emblematica scena finale del capolavoro di Fellini. Potentissimo, sagace il confronto tra Giovanni ed il giovane regista sul messaggio etico affidato al cinema, sulla cura delle scene, dei dialoghi, delle pose, sulla necessità di non cedere alle lusinghe di prodotti di massa spesso brutti, poco curati, sul bisogno di continuare a fare un buon cinema. In più occasioni Giovanni ripete “faccio un film ogni cinque anni … e poi non va bene che faccio un film una volta ogni cinque anni, qui bisogna stringere, accelerare”. L’incontro con i responsabili di Netflix Italia, la presenza dei produttori coreani sono un messaggio molto chiaro all’attuale produzione audiovisiva, la molteplicità delle piattaforme streaming e la quantità di prodotti disponibili che non sempre sono sinonimo di qualità. Il cinema rischia di diventare esclusivamente finalizzato all’intrattenimento, con un telecomando che seleziona un titolo tra la miriade di quelli disponibili, a cui se ne aggiungono sempre di più in una produzione compulsiva ed incontrollata, in una corsa quasi esasperata a chi realizza in tempi brevi a discapito di dialoghi, montaggio e doppiaggio. L’industria cinematografia coreana emergente le cui premesse sono quelle di eguagliare quella statunitense più che quella europea, con volumi di affari notevoli. Qual è, dunque, la metafora de Il Sol dell’Avvenire, di questo capolavoro indiscusso. Personalmente mi ha colpito la presenza del circo, il rimando al circo Mezzapiotta di Gabriele Mainetti in Freaks Out, per me è stato immediato; entrambi raccontano di un popolo oppresso da un dittatore, entrambi urlano alla libertà. Nel film di Moretti ed il suo film nel film racconta la disillusione, la certezza granitica di aver investito nelle idee socialiste ritenute più fraterne ed umane, per poi ricredersi e prendere posizione, una posizione d’amore “Giovanni questo è un film sull’amore”. Attraverso il suo film, Giovanni racconta la sua personale storia d’amore della quale non ha saputo prendersi cura, e se è vero che “vivere con lui è come camminare su una corda tesa”, è arrivato il momento di aggiustare quegli equilibri mettendosi in discussione, abbandonando il solito atteggiamento depresso ed indolente, reagendo allontanando il cappio e montando sull’elefante verso il futuro con il coraggio di chi continua a sostenere le proprie idee ed i propri principi, anche quando chi ha costruito un potere in nome di essi poi se ne dissocia, pur di mantenere saldo quel potere. Lo sfondo politico è, dunque, a mio parere solo una scusa per affrontare un argomento diverso: l’etica nel cinema come atto di amore. A dimostrarlo è la scena finale, una parata di persone e personaggi che fanno del cinema italiano un prodotto di altissima qualità, sempre riconoscibile dal pubblico il cui approccio resta critico anche quando sceglie tra i titoli disponibili sulle piattaforme. Dopo aver visto Il Sol dell’Avvenire, si ha la sensazione di uscire dalla sala con una piacevole sensazione di ubriachezza causata da un forte cocktail di emozioni.
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